Quando dall’Europa del Sud si partiva con le valigie di cartone si diceva “dramma dell’emigrazione”. Per molti era un dramma, certo, ma serviva ad alleggerire la pressione demografica su un’economia nazionale, o anche solo regionale, che non era in grado di dare lavoro a tutti e, per giunta, dall’emigrazione traeva un ritorno economico immediato: le rimesse degli emigranti che, grazie al lavoro e allo stipendio trovati altrove, rifinanziavano la magra economia domestica dei familiari rimasti a casa. Oggi che l’emigrante imbarca il trolley nella cappelliera dell’aereo e ha in tasca un titolo di studio universitario quel fenomeno si chiama “fuga di cervelli” e pare essere un problema più per chi resta che per chi parte. Le eventuali rimesse dell’emigrazione qualificata sono briciole per la nazione che si lascia sfuggire quei giovani che faranno Pil altrove e che tuttavia, con il suo sistema scolastico normalmente gratuito e universale, il Paese d’origine ha contribuito a formare.
Secondo uno studio recente centrato sulla situazione italiana e che si serve anche, ma non solo, di dati Istat, 377 mila è il numero ufficiale di giovani italiani tra i 20 e i 34 anni di età che sono andati a lavorare all’estero nel decennio 2011/2021. Ma il dato ufficiale italiano riporta solo i cittadini che, una volta insediati nel Paese straniero, si iscrivono all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire), vale a dire i registri ufficiali delle rispettive sedi consolari. Si tratta però di un’iscrizione facoltativa che non tutti effettuano. E infatti, se incrociamo quel numero con quelli di altri registri delle autorità straniere dove i lavoratori sono obbligati a iscriversi per poter accedere a dei benefici essenziali, come lo stesso contratto di lavoro o di affitto, o ancora l’apertura di un conto bancario, si scopre che per ogni lavoratore espatriato ufficialmente dobbiamo contare almeno altri due lavoratori “ombra” espatriati insieme a lui.
Detto ciò, bisogna anche mettere in guardia dal rischio retorico che è sempre in agguato dietro un certo tipo di discorsi. Così come esiste una retorica tossica contro l’immigrazione, normalmente di destra o di estrema destra, che dipinge l’immigrato non come quello che effettivamente potrebbe essere, vale a dire un prezioso apporto a un sistema industriale che ne ha bisogno, ma come un delinquente o (nella migliore delle ipotesi) un lavoratore disposto a tutto pur di “rubare” il lavoro alla gioventù nativa; allo stesso modo esiste una retorica meno tossica, meno di destra e politicamente più trasversale, ma ad alto rischio di piagnisteo, sulla fuga di cervelli che vede nell’espatrio dei professionisti più qualificati il segno di un’economia stagnante, che non riesce, per esempio, a far crescere gli stipendi e quindi ad essere competitiva sul mercato del lavoro.
Non è una lettura del fenomeno sbagliata. La bilancia migratoria è come una bilancia commerciale, non a caso anche qui si parla di esportatori o importatori netti. Se il saldo è ampiamente negativo, se l’emigrazione diventa un’emorragia di talenti, il problema non può essere ignorato. E in Italia, stando allo studio citato, pare che, per ogni cervello che entra, ne escano altri sette. È una bilancia sbilanciata e le cause del male sono gioco facile per le opposizioni che decidano di attaccare questo o quel governo. Ecco perché in Italia il governo Meloni (di destra) a far rientrare i cervelli, mentre in Portogallo ci ha provato il governo Costa (di sinistra), con sgravi fiscali che però non sempre funzionano se non sono accompagnati da una buona dose di quella che i portoghesi chiamano “saudade”, la nostalgia di casa, il valore aggiunto che manca agli stipendi. Perché, soprattutto quando le differenze salariali sono molto alte (e in certi casi basta fare un salto dalla Lombardia alla Svizzera per usufruirne), diventa piuttosto difficile convincere il lavoratore a rientrare in patria.
Eppure, vale anche per la fuga di cervelli quello che scrivevamo qualche tempo fa a proposito del calo delle nascite: non è un fenomeno assolutamente negativo in sé. Preoccupa per le conseguenze che si accumulano e si avvitano su se stesse, ricadendo sulla qualità del mercato del lavoro interno e, ancora una volta, sul sempre traballante sistema pensionistico. Ma anche in questo caso la causa positiva esiste e non può essere ignorata, né combattuta con misure inquietanti, come quella emersa nella foga della recente campagna per le legislative portoghesi, quando i socialisti arrivarono a ventilare l’ipotesi che i giovani medici portoghesi fossero multati se dopo la laurea non avessero prestato un minimo di anni di servizio in patria.
Giustamente, più che di fuga, qualcuno preferisce parlare di circolazione dei cervelli. In inglese, al brain drain si associa il brain sharing. Cos’è questa “fuga”, insomma, se non la logica conseguenza della libertà di movimento e di scelta di cui le giovani generazioni godono fin dai primi anni universitari? Cos’è il programma Erasmus se non un bel preliminare di fuga? Almeno entro i confini dell’Unione europea non dovremmo più considerare “dramma” l’espatrio di un neolaureato che a volte non deve fare altro che spostarsi di poche centinaia di chilometri, da Lisbona a Madrid, da Genova a Marsiglia, molto meno di un qualunque statunitense che si laurei a New York e vada a lavorare a Los Angeles. E cosa sarà davvero un Paese “straniero” per un giovane europeo nato da madre italiana e padre tedesco e con un percorso di studi (e di vita) tracciato fra Italia, Germania e un terzo Paese a scelta, magari quello della fidanzata che sta per diventare sua moglie?
La sfida della libera circolazione dei cervelli va affrontata con tutti gli strumenti possibili e più idonei ai contesti. A cominciare dallo strumento più semplice (almeno in linea teorica) suggerito da Joe Biden un paio d’anni fa a chi gli chiedeva come fare a rispondere alla mancanza di lavoratori sul mercato americano in seguito a quell’altro grosso fenomeno cui si assiste oggi nei Paesi più ricchi, il quiet quitting, cioè l’abbandono silenzioso, la grande dimissione di chi nella professione non si riconosce più (un tempo si chiamava alienazione) e si rifiuta di lavorare. Biden lo disse ai padroni sottovoce, ma con la bocca molto vicina al microfono: “Pay them more”!