Le dinamiche di Squid Game nella sua seconda stagione accentuano e ampliano letture critiche di alcune concezioni di libertà e democrazia.
Negli ultimi anni si è discusso molto di un concetto di libertà politica che spesso viene ridotto a manifestazioni molto specifiche, come la libertà di espressione. La libertà viene così riassunta come la capacità di esprimere la propria opinione e di scegliere. La questione della scelta, del significato di scegliere, è un altro tema vasto che potrebbe generare molte riflessioni, ma per ora concentriamoci su qualcosa di più concreto: quella libertà che si esaurisce nella capacità di esprimere un’opinione.
Nella seconda stagione, recentemente rilasciata, di Squid Game, sia le dimensioni puramente individuali che quelle collettive di questo concetto di libertà vengono sufficientemente esplorate.
In questo senso, a livello individuale, la libertà è presentata come la possibilità di scegliere liberamente di partecipare ai giochi. A livello collettivo, invece, come l’articolazione di una maggioranza che decide se continuare o meno a giocare dopo ogni turno.
In linea di principio, data la struttura formale proposta, si potrebbe essere tentati di pensare venga effettivamente rispettata la libertà dei partecipanti al gioco, sia a livello individuale che collettivo, e che quindi, dato che la responsabilità di iniziare e continuare il gioco è interamente loro, anche le conseguenze (le morti di tanti) siano interamente a loro carico, scagionando gli organizzatori morbosi che, in ogni caso, sembrano condurre un esperimento sociale affinché i giocatori possano conoscere sé stessi.
Il problema di questo approccio è che presume che l’esercizio della libertà sia qualcosa di dato, in nome dei classici, in una forma pura: si esercita la libertà nella misura in cui si sceglie. Non si tengono in conto le diverse circostanze e i fattori condizionanti che predispongono a questa scelta: il carattere personale, l’educazione, la situazione familiare ed economica, i fattori socio-politici, ecc.
Nella sua forma più estrema, questo approccio, che ignora tutte le circostanze specifiche, porta a idee tanto controverse quanto la possibilità di vendere i propri organi vitali, proposta da Javier Milei nella sua campagna elettorale. Secondo lui, se una persona decide liberamente di vendere un rene a un terzo, chi dovrebbe fermarlo? Il costo dell’intervento sarebbe quello di restringere una libertà che non danneggia un terzo (principio di non interferenza). In realtà, questi esempi proposti da Milei, per quanto bizzarri e macabri possano sembrarci, sono estremamente utili per osservare, seppur intuitivamente, che c’è qualcosa di sbagliato in questo approccio: se la libertà di una persona che vende volontariamente un rene si riduce a farlo o morire di fame, ad esempio, non stiamo forse affrontando una coercizione piuttosto evidente?
D’altro canto, per quanto riguarda la dimensione collettiva della libertà, abbiamo, naturalmente, fondato le nostre democrazie rappresentative liberali sul potere della maggioranza. Cioè, dalla fine della Seconda guerra mondiale, questa democrazia è stata presentata ininterrottamente come il paradigma su cui tutte le società politiche del mondo dovrebbero basarsi, perché si considera la forma più elevata per tenere conto del giudizio di ogni cittadino. Tuttavia, come hanno sostenuto vari teorici, incluso Žižek, affinché una democrazia funzioni, è necessario un quadro comune in cui tutte le parti si rispettino a vicenda e in cui ciò che viene votato non rappresenti un affronto o qualcosa di inaccettabile per una parte. In una certa misura, la democrazia funziona bene in quanto agisce come un metodo per spezzare i legami: dato un certo consenso, bisogna prendere decisioni quotidiane in qualche modo, e forse il modo più giusto e meno arbitrario per farlo è consultare la maggioranza sociale.
In Squid Game, al contrario, qualcosa di cruciale come il continuare a giocare un gioco che potrebbe portare alla morte immediata dei partecipanti alla votazione (i giocatori, naturalmente) viene messo ai voti. Fino a che punto si può legittimare una maggioranza a prendere una decisione simile? Qui ci imbattiamo indubbiamente nel pericolo di cui Tocqueville aveva avvertito molto tempo fa: una maggioranza sociale non può essere legittimata a prendere decisioni abiette che influenzano direttamente il progetto di vita (letteralmente) degli altri membri di una società, perché così facendo si cade nella tirannia della maggioranza.
Infine, come se il desiderio dell’organizzazione di legittimare ciò che viene fatto sulla base della sola responsabilità dei partecipanti non fosse abbastanza chiaro, l’infiltrazione del giocatore 001 ci ricorda costantemente che, nonostante gli sforzi del giocatore 456, i partecipanti non meritano di essere salvati da sé stessi: sono egoisti, capricciosi, crudeli, ecc. Ma è davvero così? È davvero così, e si può ridurre la natura di queste persone senza considerare le circostanze che le condizionano? E soprattutto, si può legittimare la barbarie sulla base di una presunta libertà di scelta?