Gli ulivi di Puglia stanno seccando a causa di un pericoloso patogeno ma anche per decenni di cattive condotte da parte dei proprietari dei poderi e per gli effetti generali del cambiamento climatico.
Il batterio Xylella fastidiosa è stato probabilmente introdotto a Gallipoli (in provincia di Lecce) a seguito all’importazione di una pianta di caffè dal Costa Rica. Il patogeno si è quindi adattato agli ulivi presenti su tutto il territorio della Puglia provocando dal 2013, anno in cui è stato isolato il batterio, la morte di quasi sette milioni di alberi di ulivo. Un evento che era stato previsto visto che se ne parlava già nel 2010 in un congresso dell’Istituto Agronomico Mediterraneo di Bari (IAMB), ad opera dello scienziato americano Rodrigo Almeida, che presentò una relazione dal titolo “Xylella: pericolo alle porte”. Questo e molto altri misteri hanno segnato la diffusione dell’epidemia nella penisola salentina, a seguito della quale si sono registrate forti proteste popolari, inchieste della magistratura di Lecce, aspri confronti tra scienziati ed evidenti inadeguatezze della politica, nazionale e regionale. Per un quadro “storico” del contesto in cui si è diffusa la malattia degli ulivi denominata Complesso del Disseccamento Rapido dell’Olivo (CoDiRO), rimandiamo al libro-inchiesta “Xylella Report” di Marilù Mastrogiovanni mai smentito o querelato da alcuno dei personaggi inseriti nella trattazione del volume.
Quale destino per gli ulivi pugliesi?
A più di un decennio di distanza da quei fatti, la situazione della foresta di ulivi nella penisola salentina (nel sud della Puglia) è quanto mai critica. E a certe semplificazioni che hanno visto solo nel “batterio killer” la causa del CoDiRo dell’ulivo, oggi si affacciano ipotesi più organiche che guardano anche agli effetti del cambiamento climatico e alla quasi sterilità dei terreni eccessivamente lavorati.
E mentre imperversano le proteste degli agricoltori pugliesi per la mancanza di politiche pubbliche volte a contrastare la siccità e i patogeni, per cercare di capire qualcosa in più, ci siamo rivolti al CMCC (Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici), un autorevole istituto di ricerca indipendente che sviluppa studi e modelli sul sistema climatico e le sue interazioni con la società, promuovendo politiche di adattamento e mitigazione basate su solide conoscenze scientifiche. La fondazione CMCC ci ha messo in contatto con il Dott. Gabriele Pizzileo che lavora per la divisione IAFES (Impatti su Agricoltura, Foreste e Servizi Ecosistemici) del Centro. Lo abbiamo intervistato nel luglio 2024, a poco più di un decennio dalla comparsa dal batterio Xylella fastidiosa nella penisola salentina e gli abbiamo chiesto cosa si può fare per contrastare la deforestazione in atto nel tacco d’Italia.
Chiediamo al dott. Pizzileo se ci sono speranze di salvare i milioni di alberi di ulivo disseminati per la Puglia ed il Salento, in particolare
Sicuramente posso darvi un insight sulle buone pratiche agricole da mettere in alto per mitigare gli effetti del cambiamento climatico, soprattutto in termini di emissioni per le aziende agricole. L’agricoltura, infatti, è uno dei primi settori per emissioni di gas effetto serra, che contribuisce proprio al cambiamento climatico, causa di queste grandi catastrofi come alluvioni o di siccità. Tra le tante pratiche utili a fronteggiare l’alternanza di siccità e violente precipitazioni che si concentrano in pochi periodi dell’anno, c’è l’inerbimento. Nel caso di pioggia battente, una superficie coperta d’erba rispetto ad un terreno completamente nudo, consente di mitigare l’impatto dell’acqua sul suolo e anche di canalizzarla meglio grazie alla presenza delle radici di queste piante erbacee. L’inerbimento andrebbe tenuto in piedi fino all’inizio della stagione secca quando poi andrebbe gestito in maniera sostenibile tramite le trinciature, viste però non di buon occhio da alcuni imprenditori data la pratica consueta di lavorare periodicamente il terreno per non far formare la crosta di lavorazione. E questo è particolarmente vero nel Salento dove la pratica di lasciar crescere erba spontanea o seminata è poco utilizzata perché si tende a lavorare il terreno in maniera continuativa.
In che modo andrebbe lavorato il terreno?
Tramite delle fresature, con organi meccanici che lavorano attivamente il suolo oppure tramite erpici che lo scavano solo in superficie. Dobbiamo tenere in conto però che ogni volta che smuoviamo il suolo mobilitiamo anche tutta la microflora e microfauna che va a mineralizzare la sostanza organica che c’è al suo interno. In suoli già poveri di sostanze organiche come i nostri, le fresature frequenti fanno perdere una parte di fertilità in termini di carbonio e azoto, stoccati all’interno. C’è anche un altro contraccolpo negativo: l’azoto, oltre ad essere un materiale nutriente per le piante, è un gas fortemente impattante in termini di cambiamenti climatici. E l’agricoltura ne immette molto in atmosfera, sia attraverso le fertilizzazioni che le mineralizzazioni. La trinciatura dell’inerbimento ha anche impatti molto positivi sulla siccità, perché va a creare uno strato chiamato “mulching” (o “pacciamatura”, in italiano). Si tratta di una sorta di cappotto di qualche centimetro che mettiamo al suolo e che impedisce all’acqua di evaporare alla velocità standard che si avrebbe se il terreno fosse nudo. Questo permette di tesorizzare meglio l’acqua, renderla più disponibile alle piante, diminuire la temperatura del suolo perché aumenta la sua capacità di riflettere la luce solare. Questa azione si può ottenere anche gestendo in maniera sostenibile le potature delle piante, facendo compostare il materiale e poi riapplicandolo al suolo e evitando così problemi fitosanitari o di aumento di inoculo di patogeni.
Che opinione ha rispetto all’abuso di fitofarmaci e diserbanti?
Accanto alle buone pratiche agricole che ho descritto, l’agricoltore dovrebbe usare la protezione fitosanitaria in maniera razionale, cosicché i diserbanti non vengano sparsi, ad esempio, su tutto il campo ma solo sotto le piante; oppure utilizzando delle alternative biologiche meno impattanti, magari in maniera preventiva invece che curativa. Informare l’agricoltore su queste pratiche potrebbe portare a lui un vantaggio in termini economici, perché lo aiuteranno ad essere più resiliente e a subire meno gli impatti del cambiamento climatico; e sicuramente il territorio, di cui migliorerebbe la qualità della vita.
Gli imprenditori agricoli che hanno perso i loro ulivi per colpa del disseccamento da Xylella fastidiosa che tipo di colture possono immaginare di reimpiantare nel territorio?
Questa è una delle nostre tematiche di ricerca. Nei prossimi mesi uscirà un nostro tool online che aiuterà gli agricoltori in questa decisione. Stiamo valutando la vocazione climatica di diverse colture che possono aiutare gli imprenditori agricoli ed i coltivatori in generale a decidere su cosa scommettere, un aiuto nel capire se quella coltura sarà climaticamente sarà adatta da qui al 2050 ad essere coltivata. Il tool avrà un’estensione che coprirà probabilmente tutta la Puglia, sicuramente le province di Lecce, Brindisi e Taranto, impattate dalla Xylella.
Attività Complementari
Video
L’impatto del cambiamento climatico nel Salento tra Xylella e rischio desertificazione