Con Trump, la politica statunitense si sta muovendo verso il tecno-feudalesimo. La Silicon Valley sta ridefinendo il potere, con figure come Musk che guidano cambiamenti radicali. Né neoliberale né neoconservatore, questa nuova era segna un importante riallineamento politico.
Negli ultimi anni, abbiamo assistito a un cambiamento nel panorama politico degli Stati Uniti verso un nuovo paradigma che Yanis Varoufakis definisce “tecno-feudalesimo”. Questo termine descrive una dinamica in cui le grandi piattaforme tecnologiche agiscono come nuovi centri di potere, sconvolgendo le strutture tradizionali. Con l’amministrazione Trump, queste aziende tecnologiche hanno trovato terreno fertile per espandere la loro influenza e ridefinire le dinamiche del potere politico ed economico. La nuova amministrazione non sarà né strettamente neoliberale né neoconservatrice, ma tecno-feudale.
I nuovi signori feudali
Sappiamo già che Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo e attuale braccio destro di Trump, guiderà il nuovo Office of Government Efficiency con l’imprenditore Vivek Ramaswamy, concentrandosi sulla spesa federale e sull’ottimizzazione delle operazioni governative. Ma non è solo lui.
Anche Mark Zuckerberg, nella sua recente intervista al podcast di Joe Rogan (probabilmente il più influente al momento), riflette questo cambiamento, adattandosi a politiche meno interventiste sul controllo dei contenuti, sostenendo la necessità di proteggere la libertà di parola e di adottare nelle aziende una maggiore “energia maschile”. Meta, la compagnia di Zuckerberg, ha ammorbidito la sua politica sulla moderazione delle fake news, simile a quanto implementato da Elon Musk su Twitter.
Anche Peter Thiel, ex CEO di Paypal, in un recente articolo sul Financial Times intitolato “A Time for Reconciliation”, ha invocato una riconsiderazione delle alleanze politiche, guidata dal potere della Silicon Valley. “Stiamo assistendo a una ridefinizione le regole del gioco politico da parte del settore tecnologico”, osserva Thiel nel suo articolo. Queste decisioni, lungi dall’essere puramente tecniche, dimostrano un approccio strategico alla politica di Trump.
Questi piani non solo rappresentano una ristrutturazione radicale dell’apparato statale, ma possono essere interpretati anche come una vittoria della tesi accelerazionista. Questo approccio, che propone di utilizzare le dinamiche stesse del capitalismo per raggiungere un punto di collasso o trasformazione totale, è riflesso nella strategia del Department of Government Efficiency. Smantellando parte della burocrazia tradizionale e incoraggiando la deregolamentazione, le figure chiave dietro questo progetto, come Elon Musk e Vivek Ramaswamy, stanno implementando un modello che cerca di accelerare i processi tecnologici ed economici, anche a costo di indebolire le strutture pubbliche tradizionali. Lo smantellamento delle istituzioni classiche è sostenuto dal mantra che solo il progresso tecnologico ci renderà liberi. Ma la realtà, almeno quella immediata, è ben diversa: i signori feudali sono tornati.
Né strettamente neoliberale…
L’allontanamento dell’amministrazione Trump dal neoliberismo è particolarmente evidente nelle sue politiche economiche e commerciali. A differenza dei suoi predecessori, Trump non ha difeso i classici principi del libero scambio, ma ha adottato una posizione protezionista, imponendo dazi su prodotti provenienti da paesi come la Cina. Stephen Miran, membro del Consiglio dei consulenti economici di Trump, ha sostenuto queste misure, affermando che proteggono gli interessi nazionali di fronte a una globalizzazione incontrollata. Jan Hatzius, Chief Investment Officer di Goldman Sachs, ha anche sottolineato che le promesse di Trump di ridurre i deficit di bilancio non sono state mantenute, il che rappresenta un ulteriore distacco dagli ideali neoliberali di disciplina fiscale.
Ma se le affermazioni di due figure chiaramente legate alla destra economica possono sembrare sospette. Leggete cosa ha detto il premio Nobel Joseph Stiglitz in un’intervista a ELPAÍS, in cui spiega perché Trump rompe con le fondamenta del neoliberismo classico: “Trump, ad esempio, non è esattamente un neoliberale, ma un nazionalista che ha costruito una coalizione tra coloro che si sentono emarginati e un importante gruppo di imprenditori”.
…né strettamente neoconservatore
L’amministrazione Trump ha mostrato anche una relazione ambivalente con il neoconservatorismo. Sebbene figure rilevanti come J.D. Vance, il futuro vicepresidente degli Stati Uniti, rappresentino i valori classici del conservatorismo morale (contro i diritti all’aborto, i matrimoni gay, ecc.), Trump ha chiarito il suo disprezzo per i neoconservatori. In particolare, il rifiuto di Trump è rivolto a quei “falchi” che hanno fatto parte dell’amministrazione e della comunità dell’intelligence che hanno plasmato la politica militare del paese negli ultimi decenni. In un’intervista con Robert F. Kennedy Jr, il futuro capo del Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani (e famoso per le sue dichiarazioni contro il vaccino anti-COVID), durante una conversazione con Jordan Peterson, ha esplicitamente menzionato il forte rifiuto da parte di Trump e del suo entourage di quei neoconservatori associati all’industria bellica e alla sua agenda internazionale interventista.
Questo non significa che Trump sia un liberale morale, ma piuttosto che la sua posizione sulla politica internazionale è meno imperialista e in qualche modo più isolazionista di quanto ci si potrebbe aspettare dal leader del Partito Repubblicano. Ed è qui che sta il punto: questo riallineamento di posizioni non sarebbe stato possibile se il Partito Democratico non avesse abbandonato la sua base elettorale.
Democratici trascurano il loro elettorato
Alla Convention Nazionale Democratica, che ha confermato Kamala Harris come candidata vicepresidente del partito, figure neoconservatrici tradizionali come John Bolton, ex capo del Dipartimento della Sicurezza Nazionale durante un anno del primo mandato di Trump, e Dick Cheney, vicepresidente sotto George Bush, hanno espresso il loro sostegno al ticket democratico. Ciò sottolinea come i cambiamenti interni nei due partiti abbiano portato a movimenti ideologici inaspettati e alleanze insolite in un panorama politico sempre più polarizzato.
Parte di questo cambiamento nel Partito Repubblicano, guidato da Donald Trump, che di recente l’ha descritto come “il partito dell’uomo comune”, è dovuto anche alla trascuratezza del Partito Democratico nei confronti della sua base elettorale tradizionale. Negli ultimi decenni, i Democratici si sono allontanati dalle preoccupazioni economiche e sociali della classe operaia, in particolare negli stati industriali della Blue Belt, che storicamente erano roccaforti del partito. Questo cambiamento è stato aggravato dal silenziamento delle voci critiche all’interno del partito stesso, come Bernie Sanders, che è stato un sostenitore coerente dei diritti dei lavoratori, della redistribuzione economica e del rafforzamento dello stato sociale.
Nonostante la sua popolarità tra la base progressista e i giovani elettori, Sanders ha affrontato un boicottaggio istituzionale da parte della leadership del Partito Democratico, in particolare durante le primarie presidenziali del 2016 e del 2020. Questa mancanza di attenzione per proposte più radicali allineate con i bisogni della classe operaia ha creato una disconnessione tra il partito e la sua base storica. Al contrario, i Democratici hanno privilegiato alleanze con i settori urbani, cosmopoliti e aziendali, lasciando un vuoto che il Partito Repubblicano, sotto la guida di Trump, è riuscito a capitalizzare.
In breve, l’amministrazione Trump, insieme a figure chiave del settore tecnologico, ha consolidato un nuovo ciclo politico che trascende le categorie tradizionali di neoconservatorismo e neoliberismo. Questo cambiamento, guidato in parte dal potere emergente delle piattaforme tecnologiche e da un rifiuto strategico delle politiche interventiste tradizionali, definisce la nuova era politica del tecno-feudalesimo. In questo contesto, non solo la politica statunitense viene ridefinita, ma anche le modalità di esercizio del potere nel XXI secolo.