Per introdurre l’argomento, iniziamo prima chiarire cosa significa colonialità. Questa parola è stata usata per la prima volta da Anibal Quijano, sociologo peruviano che la definì come quel dispositivo di potere che funziona a livello mondiale e che, in un unico orizzonte storico, ha prodotto gerarchie sociali classificando le popolazioni in base al loro grado di aderenza agli standard eurocentrici di modernità. Questo significa che, sebbene il colonialismo possa essere pensato come un processo storico conclusosi formalmente, a livello ideologico e culturale, ha prodotto visioni del mondo che continuano ad agire generando disuguaglianze fra popoli e persone. In questo modo, alcune popolazioni (o sottogruppi di esse) sono state definite arretrate o meno moderne rispetto ad altre.
La colonialità riveste un certo peso anche nelle crisi climatiche. Lo afferma un report di Greenpeace UK in cui è stato specificato che, a causa del razzismo sistemico, le persone di colore sono le più colpite dalle emergenze ambientali, oltre ad essere i soggetti meno interpellati e con meno potere decisionale.
La formula “razzismo ambientale” è stata introdotta nel 1992 durante le manifestazioni dell’Environmental Justice Movement nella contea di Warren nella Carolina del Nord, a seguito della decisione di collocare in zona una discarica di PCB. La definizione invece è stata coniata per la prima volta dal reverendo Benjamin F. Chavis, direttore esecutivo della National Association for the Advancement of Colored People, una delle prime agenzie per la difesa dei diritti civili negli USA. Per Chavis il razzismo ambientale è ineguaglianza a livello di politiche ambientali. È la deliberata collocazione di industrie nocive in zone caratterizzate dalla presenza di comunità nere o marginalizzate. È l’esclusione di queste fette di popolazione dagli organismi di regolamentazione ecologica e dai consigli decisionali.
Dalle esemplari rivolte dell’ Environmental Justice Movement è scaturita una presa di coscienza, che si traduce, attualmente, in una crescente sensibilità anche a livello di organismi istituzionali sovranazionali, si pensi alla Raccomandazione CM/Rec(2022)20 del Comitato dei Ministri agli Stati membri sui diritti umani e la tutela ambientale o al Rapporto A/HRC/49/53 delle Nazioni Unite sugli obblighi in materia di diritti umani relativi al godimento di un ambiente sicuro, pulito, sano e sostenibile.
Diseguaglianze ambientali e defuturing
Secondo molti studi, alla base delle disuguaglianze ambientali vi sono gerarchie di valore secondo cui alcuni soggetti vengono ritenuti meno meritevoli di vivere in un ambiente salubre di altri. Parliamo di popolazioni costrette a pagare ingenti costi in termini di mobilità sociale e qualità della vita in nome del profitto. È stato questo il caso degli Ogoni nel Delta del Niger, che per decenni hanno assistito al depauperamento e alla distruzione delle loro terre e alla crescita dei tassi di mortalità e malattie fra gli indigeni. Una sorte simile è toccata ai residenti di Somkhele nella provincia sudafricana del Kwa-Zulu, dopo l’allocazione della miniera di carbone Tendele nel 2007.
In Brasile la multinazionale VALE ha in corso vari progetti minerari di cui il principale è Carajás Serra Sul, nella Foresta Nazionale di Carajás (Pará). Nel territorio di Xikrin do Cateté, sono presenti quattordici stabilimenti di VALE con altissimi impatti sugli ecosistemi naturali e sulle comunità locali.
Qui, fra gli altri soggetti a rischio, le donne vengono, particolarmente, sfruttate e subalternizzate. Tale condizione, secondo un recente studio, è molto comune nel caso di vari megaprogetti in America Latina.
L’Articolazione Internazionale delle Persone Affette da Vale (AIAAV) è una rete solidale, che dal 2009, raccoglie in sé diverse organizzazioni da tutto il mondo contro gli impatti socio-ecologici della multinazionale.
Per comprendere meglio queste strategie di dominio economico sull’abitare umano e sulla natura ci sembra utile fare riferimento al concetto di defuturing introdotto dal filosofo Tony Fry. Secondo lo studioso defuturing significa rimuovere il futuro dalla superficie di rappresentatività del presente. Significa eliminare dall’immaginazione pubblica le conseguenze che un domani potrebbero scaturire da pratiche socialmente ed ecologicamente insostenibili. Tuttavia, ci dice Fry, anche se le azioni del presente vengono messe in ombra dal potere politico ed economico, gli effetti di colonizzazione sul futuro delle popolazioni sono già un dato di fatto. Conoscere la direzione verso cui conduce una nostra azione e i limiti oltre i quali l’uomo non dovrebbe spingersi, è importante per essere consapevoli di cosa abbiamo il potere di distruggere e di cosa abbiamo la capacità di creare.
Un caso di razzismo ambientale
“Ha vinto la volontà dei cittadini di Trieste. Mai visto un cielo così a Servola”. Con queste dichiarazioni l’allora ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli commentò la chiusura dell’area a caldo della ferriera di Trieste, era il 9 aprile 2020. Non fu la prima volta in cui lo Stato italiano intervenne a tutela delle popolazioni del Nord Italia colpite dagli effetti dell’inquinamento industriale. Già 2005 un accordo tra gruppo Riva e istituzioni aveva sancito la chiusura dell’area a caldo dell’ILVA di Cornigliano, perché dichiarata incompatibile con la vita umana. A seguito di questa decisione senza clamore la produzione a caldo di Genova fu, interamente, spostata a Taranto. Taranto, come è noto, è sede della più grande acciaieria d’Europa. Che il caso ex ILVA di Taranto sia da considerarsi razzismo ambientale di può leggere nelle 3700 pagine che costituiscono le motivazioni della sentenza Ambiente svenduto. Secondo la corte d’assise di Taranto, la gestione dell’acciaieria è molto simile ai casi di razzismo ambientale di cui a suo tempo parlò il reverendo Chavis. Taranto, come le zone dell’Africa, è stata identificata come un luogo sacrificabile, una zona economicamente arretrata dove insediare uno stabilimento ad altissimo impatto inquinante. Il trasferimento della produzione da Genova a Taranto configura, a chiare note, come la vita di un cittadino settentrionale per lo Stato italiano abbia un peso maggiore della vita di un abitante del Mezzogiorno d’Italia.