La giornalista argentina Leila Guerriero e lo scrittore catalano Pol Guasch hanno tenuto un incontro al CaixaForum di Barcellona su scrittura, influenze, amore e fiducia nel linguaggio. L’evento, parte del festival En otras palabras, era incentrato su un testo inedito di Guerriero intitolato Todos juntos ahora (Tutti insieme, adesso).
Per scrittori e lettori, esistono parole che trafiggono la pelle e si annidano nel corpo. Al CaixaForum di Barcellona, queste parole hanno preso vita grazie a Leila Guerriero, giornalista e scrittrice argentina originaria di Junín, celebre per il suo lavoro nel giornalismo narrativo. Autrice di libri come Los suicidas del fin del mundo (I suicidi della fine del mondo), Una historia sencilla (Una storia semplice) e La llamada (La chiamata), Guerriero è considerata una delle voci più autorevoli della cronaca contemporanea. Nell’ambito del festival En otras palabras (In altre parole), Guerriero ha letto un testo inedito scritto appositamente per l’occasione: Todos juntos ahora (Tutti insieme, adesso). Questo è stato lo spunto per un dialogo con il poeta e scrittore Pol Guasch (Tarragona, 1997), autore del premiato Napalm al cor (Napalm al cuore), delle raccolte poetiche Tanta ganà (Tanto desiderio) e La part del foc (La parte del fuoco), e del recente romanzo Ofert a les mans, el paradís crema (Offerto tra le mani, il paradiso brucia) (Anagrama, 2024). Ne è scaturito non uno scambio, ma un atto di complicità, un pensare ad alta voce condiviso, fatto di letture, confessioni e divagazioni lucide.
Di cosa sono fatte le voci?
Guerriero ha parlato di influenze, ma non con l’intento di costruire un albero genealogico letterario. Più che cercare di collocarsi in una discendenza illustre, il suo testo mirava a descrivere con precisione il modo misterioso in cui certe opere, gesti e frasi si insinuano nella scrittura, come una spora o un virus. «Le influenze sono come fegati, pancreas e cuori, soprattutto cuori», ha dichiarato, «che si aggiungono al corpo macrocefalo che è la scrittura». Alcune influenze arrivano come epifanie; altre si insinuano lentamente. Alcune sono prestigiose, come la canzone dei Beatles All Together Now, il cui eco è finito nel titolo del testo letto. Altre, come Flashdance, offrono una gioia violenta, che può salvarti la vita a tua insaputa.
«Una buona influenza si sedimenta, lavora misteriosamente e infine ci lascia in pace», ha detto Guerriero. Tuttavia, accettarle non è sempre stato facile. Citando la famosa teoria dell’“angoscia dell’influenza” di Harold Bloom, Guerriero ha evocato la tensione tra ammirazione e debito, eredità e paralisi. Bloom sosteneva che nessun vero autore forte può accettare pienamente di non essersi inventato da sé, e che ogni opera significativa nasce da una lotta simbolica con il passato. Guerriero però prende le distanze da questa lettura, dichiarandosi parte «del club di Zambra e di quello di Fabián Casas»: per lei l’influenza è una benedizione, non un ostacolo da superare. «È un miracolo e una catastrofe, perché altera la tua prospettiva. Se cambia la prospettiva, cambia anche lo stile. E se cambia lo stile, cambia tutto».

Scrivere come atto d’amore
Quando Pol Guasch si è unito alla conversazione, il discorso si è spostato su altri temi: il corpo, il tempo, il desiderio e l’oblio. Con l’entusiasmo di un conduttore TV, ha chiesto a Guerriero se si considerasse la scrittrice che voleva essere. Lei ha esitato: «Sono un po’ per strada. Non ci sono ancora del tutto, perché ho ancora molto da levigare. Sono curiosa di vedere come sarà cambiata la mia scrittura tra cinque anni», ha aggiunto, precisando scherzosamente che rispondere di sì sarebbe stato troppo arrogante.
Guasch è tornato su un’idea già emersa la sera prima durante il loro incontro a Palma: scrivere come atto d’amore. Non come metafora romantica, ma come gesto di fede. «L’amore è uno stato di fede in cui bisogna trovarsi, perché se non ci sei, non vedrai come preziose le piccole cose dell’altro. Gli altri vedono un sorriso assurdo, tu vedi l’amore della tua vita». Il dardo lirico del poeta era un modo per nominare ciò che accomuna i veri atti di creazione. Scrivere e amare non esistono senza quell’abbandono incomprensibile all’invisibile e all’indimostrabile.
Fede e lavastoviglie
Guerriero ha sottolineato l’importanza della fede nella scrittura, ma non come dogma: piuttosto come apertura. È la fiducia che qualcosa — invisibile, banale o inatteso — possa contenere un seme di senso. Parlando del blocco creativo, ha raccontato che spesso lo sblocco avviene durante attività quotidiane come correre, farsi la doccia o lavare i piatti. «Con alcuni colleghi abbiamo lunghe conversazioni sui benefici di lavare i piatti», ha detto ridendo. Non era una metafora forzata: per Guerriero, la ripetizione semplice di questi gesti, senza aspettative, apre uno spazio mentale dove l’intuizione latente può improvvisamente prendere forma.
Ha illustrato questo concetto con un aneddoto preciso: «A volte il testo non procede, e poi… una frase letta male ti regala un’intera rubrica». Si riferiva a una lettura in cui aveva confuso la fiesta fantástica (la festa fantastica) con la fantástica desgracia (la disgrazia fantastica). L’errore fu talmente fecondo che Guerriero scrisse venti rubriche partendo da lì. Un esempio che non era capriccioso, ma dimostrava che scrivere significa anche prestare attenzione all’insignificante. Spesso, la scoperta non nasce dall’ordine, ma dall’errore, dalla deviazione, dagli scivoloni.
Forse è proprio in quel gesto che si gioca il cuore della scrittura: vedere valore dove apparentemente non ce n’è — o non ancora. Non il controllo, né la tecnica, né la padronanza. Ma un’apertura radicale. La possibilità che un errore scateni una rivelazione. Che un fraintendimento riveli una verità. L’idea che qualcosa di semplice come un piatto mal risciacquato, una frase letta male o un ricordo storto possa contenere la scintilla di ciò che ancora non è stato scritto.

Contro il luogo comune
La conversazione ha toccato anche il rapporto tra finzione e non-fiction, autofiction e cronaca, letteratura e mercato. Guasch ha posto la domanda: che sta succedendo alla finzione? Guerriero ha risposto con cautela, evitando toni apocalittici: «Ogni paese è un mondo a sé. Ci sono mille tendenze, spesso contraddittorie. L’idea che l’autofiction vada di moda o che il romanzo sia morto… l’ho sentita cinque volte negli ultimi dieci anni».
Ciò che ha difeso con forza è stato il rigore. A questo proposito, Pol Guasch ha citato lo scrittore Alexander Chee, secondo cui la parte difficile non è iniziare a scrivere, ma continuare. E che mette in guardia contro la tentazione di cedere ai cliché — quell’inerzia che minaccia anche lo scrittore più vigile. Non basta mettersi a scrivere: bisogna restarci, nonostante tutto. Guerriero ha parlato per esperienza: «C’è una parte del processo molto dolorosa. Quando lavori con una mole immensa di materiale — interviste, archivi — sembra tutto un caos ingestibile. Ti chiedi: “Chi diavolo mi ha detto di scrivere questa cosa?” Ma a un certo punto, qualcosa scatta. A volte mentre corri. A volte mentre lavi i piatti».
La conversazione non è finita, come non finiscono mai le vere conversazioni. Né cercava risposte definitive. Leila Guerriero e Pol Guasch hanno offerto un modo di avvicinarsi alla scrittura: con paura, desiderio e memoria. Con l’umiltà di chi sa che non esistono manuali. E con la fede di chi si lancia nel vuoto, perché, come ha ricordato Guerriero, «la prova d’amore più grande è buttarsi all’indietro da una roccia tra le braccia dell’amato che aspetta in basso».
Scrivere, in fondo, è proprio questo: saltare senza certezze, influenzati da tutto e tutti, nel tentativo di essere — anche solo per un attimo — migliori di sé stessi.